venerdì 7 maggio 2021

Benedetta Bianchi Porro e “Epoca”

La beata Benedetta Bianchi Porro (1936-1964) nell’estate del 1963 era a letto paralizzata, sorda e cieca, le era rimasto un filo di voce e la sensibilità nella mano destra. Un giorno la mamma, con l’alfabeto muto sulla mano destra, le legge la lettera che un giovane, Natalino Diolaiti, ha inviato al settimanale “Epoca”. Il giovane che, per un’infermità alla spina dorsale, può camminare solo strisciando per terra con ginocchia e gomiti, esprime disperazione e disgusto della vita.
Benedetta fa suo il dolore di Natalino e detta alla mamma una lettera.
Sirmione, 1963 
Caro Natalino,
in «Epoca» è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani, la mamma me l’ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano abbastanza difficoltose.
Anch’io come te ho ventisei anni, e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha atrofizzata quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina a Milano. Accusavo da tempo una sordità che i medici stessi non credevano all’inizio. Ed io andavo avanti così non creduta e tuffata nei miei studi che amavo disperatamente. Avevo diciassette anni quando ero già iscritta all'Università.
Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato lo studio: ero all’ultimo esame. E la mia quasi laurea mi è servita solo per diagnosticare me stessa, perché ancora (fino allora) nessuno aveva capito di che si trattasse.
Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista; ora è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. Io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta.
Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli. Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano.
E tu, Natalino, non sentirti solo. Mai. Procedi serenamente lungo il cammino del tempo e riceverai luce, verità: la strada sulla quale esiste veramente la giustizia, che non è quella degli uomini, ma la giustizia che Dio solo può dare.
Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.
Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere in Patria. Ti abbraccio.
Tua sorella in Cristo,
Benedetta 

Natalino rispose. Era felice di avere trovato un’anima tanto vicina alla propria sofferenza. Ora il suo giogo era più leggero. I due giovani si scambiarono parecchie lettere. E un giorno, di ritorno da un pellegrinaggio a Lourdes, Benedetta ebbe la conferma che il suo messaggio, caduto sulla terra buona, aveva dato frutto. Natalino scriveva:

Sono dieci anni che non mi muovo più dal letto, però sono molto su di morale sempre, ti giuro, anche quando sto male; sai che faccio quando sto male? Aspetto sempre i più grossi casi, poi passa tutto. Noi non dobbiamo rammaricarci se vediamo le rose con le spine, ma dobbiamo consolarci nel vedere che le spine hanno le rose. Se il Signore ci ha dato questo, ci aiuta poi molto a sopportare, e ci saprà riservare un buon premio; ma noi dobbiamo saperlo meritare; quindi cerchiamo di sopportare con tanta gioia, anche per coloro che ci stanno vicini.

Qualche tempo dopo la lettera di Benedetta a “Epoca”, un’altra lettera giunse alla rivista.

Gentile Sig. Direttore,

Le scrivo per ringraziare «Epoca» dell’articolo su Benedetta Bianchi Porro. Ho vent’anni, sto morendo da più di tre anni e fra poco, forse fra pochi giorni, tutte le mie sofferenze saranno finite. Mi sono tanto disperato, se lei sapesse! Poi ho letto il vostro articolo e adesso il mio cuore è in pace. Adesso è come se avessi la certezza che tutte le mie sofferenze non sono state inutili; anzi per misteriose vie faranno più bello e più buono il mondo… Ed è tutto così strano, talvolta, signor Direttore. Nessuno, finora, era riuscito a consolarmi: i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici e compagni di scuola sono sempre intorno al mio letto, non mi hanno lasciato solo un istante, e neppure per un istante mi hanno fatto mancare una parola, un sorriso, un incoraggiamento. Ma la mia disperazione restava e mi gonfiava il cuore ogni giorno. Fino a quando non è venuto il vostro articolo, parole stampate una dopo l’altra, scritte da una persona che non conosco, che raccontano la storia di una ragazza mai sentita nominare… Non è un miracolo questo? Stasera, per la prima volta, ho chiesto di sentire un po’ di musica, un disco. Adesso so che la mia giovinezza non finisce con me, non muore con me. Andrà a ravvivare la giovinezza degli altri, la buona volontà degli altri. E so che dalla mia sofferenza nascerà nel cuore di tutti quelli che mi sono stati vicini, di tutti quelli che l’hanno vissuta, qualcosa che altrimenti non sarebbe nato mai. Il mio dolore è stato come un’acqua che li ha lavati perché diventassero più belli e più lieti. Dedico questa lettera a tutti i giovani che leggono «Epoca». È certamente l’ultima lettera che scrivo nella mia vita. Se potranno ricavarne qualcosa di buono, io ne sarò allegrissimo per sempre. Ma non mi compiangano: è toccata a me, ragazzi, e non me ne addoloro più. Adesso ho capito cose che non saprei spiegarvi…

Lettera firmata (1963)


Non sono forse miracoli questi? 

0 commenti:

Posta un commento