venerdì 11 febbraio 2011

Per aspera ad astra

“È un vero peccato che attualmente si cerchi di facilitar tutto ai fanciulli, non soltanto l'istruzione in ogni campo, qualsiasi apprendimento di nozioni, ma anche i giochi e i divertimenti. Non appena il fanciullo comincia a balbettare le prime parole, subito ci si dà da fare per facilitargli lo sforzo. Tutta la pedagogia odierna non ha altra preoccupazione. Facilità non è sempre sviluppo, qualche volta significa anche regresso. Due o tre idee, due o tre impressioni più profondamente vissute nell'infanzia, con uno sforzo proprio (e, se volete, con propria sofferenza), avvieranno il fanciullo nella vita più profondamente che non la scuola più organizzata nel facilitare le cose, dove nulla è preciso, né bene né male, dove persino il vizio non è vizioso e le virtù non sono virtuose”
(...)
“Gioventù cattiva e indesiderabile, ma io sono sicuro che l'educazione troppo intenta a render tutto facile porta la colpa se la gioventù è oggi così, e Dio sa quanta ce n'è oggi da noi di questo genere!”.

Fjodor Michajlovič Dostojevskij 


Trovato qui

giovedì 10 febbraio 2011

L'oro dei gesuiti

Un gustoso episodio segnalato in un articolo da Angela Pellicciari. Siamo attorno al 1850 e correva voce che i Gesuiti nascondessero un immenso tesoro. Un sorriso fra vicende dolorosissime per la Chiesa italiana, ed infami per i Savoia.
Il libro è scaricabile gratuitamente da google books, ed è una vera miniera!

«...Così sfrattati i Gesuiti, era da ricercarsi il tesoro, che non poteva a meno di trovarsi nelle loro case, dacché tanto avea scritto il sommo filosofo delle ricchezze gesuitiche. Fruga adunque nei libri, ne' ripostigli, nelle sacristie, nelle cantine, rompi, spezza, fiuta, indovina, e nulla. A questo proposito non sarà fuor di luogo raccontare un aneddoto.
In quel serra serra di Gesuiti, che fuggivano l'invasione de' barbari, fu colto un estraneo, che parea Gesuita e non era, e venne fermato e minacciato perché rivelasse dove i suoi nascondevano il tesoro. E costui che era uomo da non perdersi sì facilmente d'animo e un giovialone, scusatosi prima per non essere mai stato addentro nei misteri della finanza, soggiunse però: sè aver visto, che il tesoriere e i superiori usavano a quella camera, e non passava giorno che parecchie volte non la visitassero.
Allora gli invasori tastato qua e colà il muro, e sentitolo risuonare da un lato, furono a nozze, stimando d'avere scoperto il tesoro, e ringraziato e licenziato il supposto gesuita, che avea tradito il segreto, diedero di mano alle picche ed ai martelli per aprire il nascondiglio. E batti e picchia, il muro resisteva ai colpi, spesso sospesi per certe dispute, che insorgevano riguardo alla divisione del futuro bottino. Finalmente, una pietra fu smossa, e s'aperse un piccolo buco, donde incominciò a venire una certa fragranza, che non era, né di rosa, nè di gelsomino. Ma l'amor del tesoro fece tollerare, e si proseguì ad ingrandire il pertugio. Di mano in mano però che questo s'ingrossava, la fragranza cresceva, e crebbe poi di tal guisa, che in quegli eroi d'Italia finalmente, più della fame poté l'odore, e scornati, uscirono imprecando a chi li aveva così solennemente scherniti.»

Don Giacomo Margotti, Memorie per la storia de' nostri tempi
 

Padre Anton Luli

Di Padre Anton Luli, gesuita albanese nato nel 1910, si era persa ogni notizia, strozzata da uno dei più terrificanti regimi comunisti. Il Catalogo della Compagnia di Gesù lo aveva definito dispersus nel 1989, mentre già nel 1983 alcune pubblicazioni ne avevano annunciato la morte "in fondo ad una miniera". L'ultima notizia che si aveva di lui era la condanna a morte nel 1979. Poi più nulla. Lo sgretolarsi del regime comunista fece riemergere dalle terribili prigioni albanesi una schiera di persone che avevano resistito a quella follia. Tra questi c'era anche Padre Luli.
Quest'eroico sacerdote è morto nella notte di lunedì 9 marzo 1998, nella Casa dei gesuiti in via degli Astalli a Roma, all'età di 88 anni. La salma di Padre Anton è stata portata in Albania dopo i funerali nella Chiesa romana del Gesù. Nella concattedrale di Tirana l'arcivescovo di Durrës-Tirana, Mons. Rrok K. Mirdita, ha presieduto la concelebrazione Eucaristica di suffragio. Tantissime persone hanno deposto fiori nel confessionale dove era solito amministrare il sacramento della penitenza. Venivano da tutta l'Albania a confessarsi da lui. Era sempre disponibile ad andare anche nei villaggi e passava ore a confessare la gente. Da Tirana, il corpo di Padre Anton è stato portato a Lóhja, suo paese natale, per essere sepolto accanto ai suoi genitori.
Negli ultimi anni della sua vita Padre Luli aveva offerto pubblicamente, in più di un'occasione, la testimonianza della sua incrollabile fede in Cristo che neppure le persecuzioni e le torture avevano scalfito. In particolare, avevano suscitato profonda commozione le parole pronunciate, alla presenza del Papa, il 7 novembre 1996, nell'Aula Paolo VI, ai vespri che aprirono le giornate del giubileo sacerdotale di Giovanni Paolo II.
Lo avevamo incontrato più volte per alcune interviste pubblicate su L'Osservatore Romano. Ogni volta l'interlocutore era colpito dalla serenità, addirittura dalla normalità con la quale Padre Anton raccontava la sua storia. «La persecuzione contro i cattolici fu particolarmente terribile: volevano semplicemente annientarci», ci confidò in un'occasione.

Il primo arresto nel 1947.
Anton Luli era nato a Lóhja, un paese di montagna vicino a Scutari, il 15 giugno 1910 ed era entrato in seminario nel 1924, poi nella Compagnia di Gesù a Gorizia, nel 1929. Dopo aver insegnato a Scutari e a Tirana, era stato ordinato sacerdote il 13 maggio 1942. Nel 1946, quando vennero espulsi dall'Albania i gesuiti italiani, Padre Luli venne nominato Rettore del Collegio Saveriano e del Pontificio Seminario di Scutari. I due Istituti vennero chiusi con uno spettacolare spiegamento di forze militari che si preoccuparono di sequestrare tutti i beni, compresi i 40 mila volumi della biblioteca, la più grande del Paese. Non va mai dimenticato il vuoto anche culturale causato dai regimi comunisti.
Nominato parroco di Shkrèli, paese a trenta chilometri da Scutari, venne arrestato il 19 dicembre 1947. Fino al 1954 subì la prima prigionia stretta e i lavori forzati con l'accusa di agitazione e di propaganda contro il governo. «Mi condussero a Koplìk, - raccontò - comune delle montagne di Scutari, e mi rinchiusero in un gabinetto piccolissimo che nessuno aveva mai pulito da anni». Là, in mezzo agli escrementi, è rimasto per otto mesi e mezzo senza mai uscire se non per l'interrogatorio quotidiano fatto di torture, anche con la corrente elettrica, per strappare chissà quali confessioni. «Ci mettevano due fili elettrici nelle orecchie» ricordava Padre Luli che ha portato sempre nella carne i segni incancellabili delle percosse.

Quella notte di Natale del 1947.
La notte santa del Natale del 1947 venne spogliato dai suoi carcerieri e appeso con una corda che gli passava sotto le ascelle. Ecco i suoi ricordi: «Ero nudo e potevo toccare terra solo con la punta dei piedi. Sentivo il corpo mancarmi, lentamente, inesorabilmente. Il freddo piano piano saliva lungo il corpo e quando arrivò al petto stava per cedermi il cuore. Emisi un grido disperato e i miei aguzzini mi sciolsero, ma solo per riempirmi di botte. Quella notte, in quel luogo e nella solitudine di quel supplizio ho vissuto il senso vero dell'incarnazione e della croce».
Vide morire il giovane parroco di Rèci, don Pietro Cuni, a causa delle torture. «Quando venne arrestato - ricordava Padre Anton - potei salutarlo dalla finestra, ma il giorno dopo lo bastonarono e gli diedero la corrente elettrica nelle orecchie. Lo seppellirono nella fogna, come don Alessandro Sirdani. Ce ne accorgemmo solo perché trovammo la terra smossa che cedeva sotto i nostri piedi». Erano gli ultimi mesi del 1948. Il pasto di ogni giorno consisteva in 600 grammi di pane e un po' d'acqua. «Per fame, molti sono arrivati fino a mangiare i propri escrementi e per sete a bere l'urina» diceva Padre Luli.

Il solito processo-farsa.
Poi vi fu il solito processo-farsa, tipico in tutto l'"impero comunista". Dopo, puntuale, la sentenza e la condanna "ovvia" ai lavori forzati. Venne mandato a Bedèn dove c'erano paludi da prosciugare. I prigionieri dovevano lavorare tutto il giorno nutrendosi con 750 grammi di pane (la razione era aumentata...) e una brodaglia. Dopo sei anni di lavori in quelle condizioni, Padre Luli venne trasferito nella famigerata prigione di Burrèl, chiamata "simpaticamente" campo di annientamento. Più o meno "la Siberia albanese".
Là erano rinchiusi soprattutto i prigionieri politici. «Io vi fui mandato - spiegava sereno - semplicemente al posto di un altro al quale, per intrallazzi e favoritismi personali, fu risparmiata tale pena. Siccome il governo esigeva diciassette prigionieri per Burrèl, io fui il diciassettesimo». E ciò che ti scuoteva era che Padre Luli ne parlava senza alcun rancore verso i suoi aguzzini.
Finita la condanna, il 20 ottobre 1954 venne liberato. Senza perdere tempo e per nulla impaurito da ciò che gli era stato inflitto, ricominciò subito a fare il parroco a Shenkóll dove rimase per undici anni e mezzo, in un clima di grande precarietà. Il 6 dicembre 1966 la sua parrocchia venne chiusa e adibita a "sala di cultura". Tutte le chiese cattoliche vennero sigillate il 19 marzo 1967, nella Solennità di san Giuseppe che quell'anno coincideva con la Domenica delle Palme. Il 1967 fu un anno tragico: l'Albania si proclamò ufficialmente "primo Stato realmente ateo del mondo".
Per sopravvivere, Padre Anton fece il contadino nella sua città natale, sempre sorvegliato a vista dalla polizia in cerca di un pretesto per arrestarlo di nuovo. Così, ogni giorno celebrava la Messa in segreto.
Il 30 aprile 1979 il pretesto - ma i comunisti non avevano certo bisogno di pretesti... - venne trovato, così fu di nuovo rinchiuso in carcere a Scutari. In una cella di quattro metri per quattro erano costrette anche venti persone. Non mancarono le torture. Dopo nove mesi si tenne il processo, ancora una volta senza alcun fondamento giuridico serio, e la condanna stavolta fu alla fucilazione con l'accusa di "sabotaggio contro il popolo". La pena venne commutata in 25 anni di carcere e in 5 di confino. Padre Luli aveva già 70 anni.

La liberazione avvenuta nel 1989.
Venne rinchiuso prima a Fìeri e poi a Shenkóll, dove era stato parroco. Nel 1987 venne trasferito nella prigione di Saranda, dove rimase fino alla liberazione definitiva avvenuta il 15 aprile 1989. Aveva 79 anni ed erano passati 42 anni dal primo arresto. «Celebrai la prima Messa pubblica nel cimitero di Bushàti - ricordava Padre Anton -, il 25 novembre 1990. Tutti per la commozione piangevano come bambini. Nonostante la giornata fredda, c'era una folla straordinaria, c'erano persino tanti musulmani». Non perse tempo e si buttò di nuovo nel ministero pastorale, senza preoccuparsi dell'età e delle condizioni di salute.
In tutti quei lunghi anni di carcere e di isolamento, Padre Anton non era mai stato informato di nulla di ciò che era accaduto o accadeva nel mondo. «Non avevo mai neppure sentito parlare del Concilio Vaticano II» diceva. Poi si trovò protagonista di un "vortice" di eventi eccezionali. Dal pellegrinaggio del Papa (22 aprile 1993) nel Santuario di Genazzano, vicino Roma, dove è custodita l'immagine della Madonna del Buon Consiglio, particolarmente cara al popolo albanese, alla storica visita pastorale di Giovanni Paolo II in Albania il 25 aprile 1993 con l'ordinazione di quattro Vescovi, fino alla difficile ma continua rinascita della Chiesa cattolica albanese.
Una grande esperienza sacerdotale.
Padre Anton ha lasciato alla rinata Chiesa albanese una grande consegna che si riconosce nelle parole che pronunciò il 7 novembre 1996 nell'Aula Paolo VI in Vaticano, in occasione del Giubileo Sacerdotale di Giovanni Paolo II: «In queste sofferenze ho avuto accanto la confortante presenza del Signore Gesù, sommo ed eterno Sacerdote, a volte anche con un sostegno che non posso non chiamare straordinario, tanta era la gioia e la consolazione che mi comunicava».
I cattolici albanesi non devono ricostruire la Chiesa senza tener conto di ciò che è accaduto. È proprio la fede delle catacombe, delle prigioni, dei martiri, il fondamento per l'evangelizzazione nel Terzo Millennio. È ciò che ha insegnato Padre Anton.
A chi gli domandava come avesse potuto resistere per 42 anni a tutte quelle vessazioni, rispondeva: «Avevo accanto a me Cristo, un sostegno straordinario che mi dava gioia. è stata una grande esperienza sacerdotale della quale ringrazio Dio. Un'esperienza certo particolare, ma non unica. Sono innumerevoli i sacerdoti che hanno subito la persecuzione a causa di Cristo. Ci può essere tolto tutto, ma nessuno potrà mai strapparci dal cuore l'amore per Gesù, l'amore per i fratelli».

L'abbraccio al suo aguzzino.
Padre Anton Luli viveva nel profondo queste parole. Una volta gli chiedemmo se aveva rivisto qualcuno dei suoi aguzzini. Sorrise. «Sì - rispose -, incontrai un mio carceriere per caso in mezzo alla strada. Era uno di quelli che, umanamente parlando, mi avevano rubato la vita. Ebbi compassione di lui, gli andai incontro e lo abbracciai». Padre Anton ci ha lasciato, insieme con una straordinaria testimonianza di fede, anche una grande lezione di perdono cristiano. A Tirana la gente continua a chiamarlo "i shenjti" che in albanese significa "il santo". Persino i comunisti, suoi acerrimi persecutori, lo indicano come "i shenjti": anche loro lo hanno visto stringere in un abbraccio di perdono, in mezzo alla strada, uno tra i suoi più accaniti aguzzini.
Con lui se n'è andata, ma solo fisicamente, una parte importante della Chiesa albanese. In questi ultimi anni sono morti testimoni eroici della fede in terra d'Albania come il Cardinale Mikel Koliqi e Padre Gjergj Vata (due fra i pochi sacerdoti sopravvissuti alla persecuzione). A loro bisogna aggiungere la donna albanese più famosa del mondo, Madre Teresa di Calcutta. È sulla testimonianza di questi cristiani straordinari che la Chiesa che è in Albania deve costruire un futuro di speranza.
Padre Luli amava definirsi "un povero sacerdote". Diceva: «Il sacerdote è prima di tutto uno che ha conosciuto l'amore, il sacerdote è un uomo che vive per amare. Per amare Gesù Cristo e per amare tutti in Lui, in ogni situazione della vita, fino a dare la propria vita». E ripeteva con gioia e con convinzione le parole dell'Apostolo Paolo nella Lettera ai Romani (8, 35-37): «Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati».